L’idea che le persone con disturbi psichiatrici fossero soggetti passivi che dovevano subire trattamenti forzati piuttosto che persone da coinvolgere in maniera attiva nella cura è stata a lungo il principio ispiratore dei manicomi.

Si trattava di strutture che erano delle carceri a tutti gli effetti: si preoccupavano di controllare e reprimere il disagio più che di fornire degli strumenti per superarlo. Il risultato di questo metodo di cura è quello che Angelo Righetti nel suo libro “Il Budget di Salute e il Welfare di comunità” definisce “istituzionalizzazione protratta”. Per dirla in altre parole: non si è a lungo tenuto conto dei contesti ambientali, sociali e relazionali che vivevano le persone con disagio mentale e che in molti casi hanno avuto conseguenze negative sulla loro salute e sull’efficacia degli interventi.

Colui che per primo ha posto il problema delle condizioni di vita nei manicomi è stato il dottor Franco Basaglia, docente di psichiatria all’Università di Padova. Una figura importante che diede il nome a una legge che ha cambiato per sempre il modo di approcciare il disagio mentale.

Quando nel 1968 la legge Mariotti aveva innescato un cambiamento culturale nei confronti delle persone con problemi psichiatrici, modificando anche la funzione del manicomio, Basaglia aveva già immaginato e fatto conoscere la rivoluzione che aveva in mente. Il suo non era un punto di vista teorico, ma l’insieme di considerazioni pratiche che aveva potuto fare da direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. In quel ruolo decise di dare agli internati dignità e diritto alle cure. Partendo dalla teoria di Sigmund Freud, modificò il rapporto tra terapeuta e paziente: dialogo piuttosto che annientamento dell’altro. Eliminò l’elettroshock e incentivò un nuovo tipo di approccio tra medico e malato centrato sullo scambio umano, su vicinanza emotiva e sostegno morale, stabilendo così un rapporto con una persona e non con un malato pericoloso.

Su questa esperienza, nel 1967, pubblicò il libro “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”. Nel 1971, fu nominato direttore dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, struttura in cui completò la sua rivoluzione psichiatrica. Nei suoi reparti cominciarono a entrare varie attività ricreative per gli internati che, per la prima volta dopo anni di prigionia, iniziarono a visitare il mondo esterno, accompagnati. I pazienti vennero stimolati a partecipare alla vita sociale della comunità e nelle strutture cominciarono ad essere ammesse le visite. C’era spazio per gite, laboratori artistici e incontri con personaggi della cultura per spettacoli ed iniziative. È con il suo lavoro che Basaglia dimostrò quanto fallimentare fosse una gestione centrata sulla discriminazione e sulla disumanizzazione degli ospiti delle strutture psichiatriche.

Dall’esperienza di Basaglia si attinse a piene mani per scrivere la legge 180, la legge Basaglia appunto, presentata dal parlamentare della Democrazia Cristiana Bruno Orsini e approvata il 13 maggio 1978. Lo Stato mise la parola fine all’esperienza terribile dei manicomi anche se il processo definitivo di superamento dell’istituzionalizzazione ancora oggi non è del tutto concluso.

Se questo, però, è il punto più conosciuto della legge, gli elementi innovativi di quel provvedimento furono anche altri e non di minore importanza. Innanzitutto, si affermò il principio della volontarietà dei trattamenti sanitari, tranne nei casi estremi in cui la persona fosse in uno stato di alterazione tale da ritenere indispensabile la terapia, anche se veniva rifiutata. Non si parlò più di pericolosità della persona e venne escluso il coinvolgimento delle autorità di pubblica sicurezza, sostituite da figure come il sindaco e il medico. L’obiettivo, quindi, diventava curare la persona e non internarla. Il trattamento extra-ospedaliero diventò la norma attraverso i servizi territoriali e si introdusse il divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici. La Legge Basaglia riuscì così a garantire alla persona fragile con disagio psichiatrico tutti i diritti di cittadino e di individuo, fino a quel momento negati.

Si faceva così strada l’importanza di elaborare un progetto costruito sui bisogni sanitari, sociali, individuali della persona fragile per definire interventi socio-sanitari mirati. Un concetto, questo, che non vale solo per il disagio mentale, ma anche per molte altre condizioni. Un sistema che parte dalla valorizzazione dei contesti di vita e che porta davvero alla riabilitazione delle persone con disabilità, degli anziani, di chi è affetto da una malattia cronica.

Il Budget di Salute si propone proprio questo: elaborare, a partire dalla persona, un progetto individualizzato, coprogettato e cogestito insieme ai servizi socio sanitari e sanitari, alla famiglia, al mondo del Terzo Settore e alla comunità, per garantire il diritto della persona alla socialità, all’abitare, al lavoro.