La parola “welfare” racchiude in sé il senso pieno di un diritto che è quello che viene definito “diritto a occuparsi degli altri”. Nonostante la nobile funzione che il welfare svolge nella nostra società, però, questo sistema è oggi in crisi perché per anni si è pensato che fosse solo una voce di spesa e non un’opportunità. Tornando indietro nel tempo a ciò che negli anni si è fatto per assistere chi aveva bisogno, ci si rende facilmente conto dell’approccio generalmente usato che ha reso difficile la realizzazione di un welfare comunitario e familiare, anche nell’ambito della salute mentale, così come concepito oggi con il metodo del Budget di salute.

Foto di Luca Rossato

Spartiacque storico in questo processo è sicuramente la Legge Basaglia che nel 1978 cercò di scardinare l’idea che i malati psichiatrici fossero socialmente irrecuperabili e comunque pericolosi per le comunità, arrivando a riconoscere anche alle persone affette da malattie mentali gravi e persistenti il diritto a recuperare una dimensione emotiva, sociale e intellettuale.

Cosa aveva portato ad affermare quella convinzione, ancora oggi in parte radicata?

La prima legge sui manicomi risale al 1904, la cosiddetta legge Giolitti. Una norma di ordine pubblico emanata per proteggere la società dai malati di mente, subordinando la “cura” alla “custodia”, che introdusse l’obbligo del ricovero. Il quadro normativo è stato completato da una serie di norme penali e civili. Il codice di procedura penale del 1930, art. 604, ha previsto che il ricovero in manicomio fosse accompagnato dall’iscrizione al casellario giudiziario, una stigmatizzazione che ha reso difficile il reinserimento nella società, complicando di molto anche la ricerca di un lavoro.

Il codice civile del 1942 ha disciplinato gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione come istituti che limitavano la capacità di agire della persona. Nel marzo del 1967, un nuovo decreto ha privato gli interdetti dei diritti politici e, quindi, del diritto di votare. In generale i manicomi diventarono così dei luoghi in cui si annientava la persona a livello sociale e le veniva negato ogni diritto.

La funzione del manicomio come “carcere delle diversità” trovava la sua giustificazione anche nella tendenza a usare queste strutture come luoghi in cui internare i dissidenti o i “deviati”. In epoche di forte restrizione come quella fascista le strutture manicomiali sono quindi diventate degli strumenti politici dove, in nome dell’ordine pubblico e della pericolosità sociale di alcuni individui, vera, presunta o inventata, si privavano della libertà alcune persone ritenute scomode. Un atteggiamento di repressione in cui gli psichiatri guadagnarono grande potere. Sotto il fascismo il numero degli internati in manicomio salì vertiginosamente: da 12.913 nel 1875 a 39.500 nel 1905, a 62.127 nel 1927 fino a 94.946 nel 1941.

I manicomi iniziarono a cambiare nel 1968, grazie a una legge proposta ed approvata dal ministro della Sanità socialista Luigi Mariotti, che nel 1965 paragonò i manicomi ai campi di concentramento nazisti. Questo cambiamento anche culturale porterà alla legge n. 431 del 1968, detta “legge Mariotti”.

Nel tentativo di ridare dignità agli internati, per cercare di sopperire al sovraffollamento, la nuova legge fissò un numero massimo di 500 posti letto in ciascuna struttura. Stabilì le professionalità mediche e sanitarie che dovevano essere presenti. Inoltre, dispose l’entrata nell’organico degli “ospedali psichiatrici” di nuove figure: psicologi, assistenti sociali, assistenti sanitari. Introdusse anche l’intervento esterno alla realtà degli ospedali psichiatrici. Prima di questa riforma, infatti, non era prevista alcuna modalità di assistenza sanitaria per i malati di mente che non fosse il ricovero in manicomio. L’assistenza psichiatrica si avvalse da quel momento in poi di centri di igiene mentale (CIM), ospedali psichiatrici, e servizi psichiatrici ospedalieri congiunti a servizi geriatrici.

La strategia di assistenza si articolò, per la prima volta, oltre l’ospedale psichiatrico, in centri di igiene mentale, servizi territoriali, diretti da un direttore psichiatra, con personale medico, infermieristico ed ausiliario. Infine venne abrogato l’art. 604 del Codice di Procedura Penale che prevedeva l’iscrizione al casellario giudiziario dei provvedimenti di ricovero in manicomio eliminando una grave modalità di etichettamento del malato di mente.

È questo il quadro che precede e, in un certo senso, spiega l’azione di radicale riforma che metterà in atto Franco Basaglia e che si fonderà sulla volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari. La sua azione pose le basi per restituire alle persone con disagio psichico bisognose di assistenza tutti i diritti, eliminando lo stigma della pericolosità sociale e incentivando il più possibile l’assistenza territoriale, facendo del ricovero ospedaliero l’eccezione.

Un punto questo che ha cambiato nel profondo il nostro sistema sanitario e dovrà ispirarlo sempre di più nel futuro.